domenica, luglio 27, 2008

Dal congresso le parole di Nichi

magari vi annoio.... ma questo congresso è troppo importante, non solo per rifondazione, ma per tutta la sinistra. sul blog di nichivendola.it il suo intervento al congresso si può anche ascoltare. non sono riuscita a postarlo qui, dove semplicemente lo copio e incollo, anche se guardare il video magari aiuta di più l'attenzione. Chi ha voglia di capire un po' di più del pensiero della mozione 2, accusata di non essere abbastanza comunista o cmq non abbastanza capace nell'individuare gli errori ed assumersene le responsabilità, lo legga... senza pregiudizi... senza chiusure.... davvero non servono in queste difficili ore per la vita di un partito che dovrebbe fare da motore per la rinascita della sinistra

mi fermo che l'intervento già è lungo (francè ma una faccia meno afflitta, preoccupata e sconsolata mentre l'ansa ti riprendeva dietro nichi no eh????)



Siamo qui, insieme, segnati da tante nostre stanchezze, bisognosi di misurare tutta la lunghezza della nostra sconfitta, ma anche sfibrati dalla pesantezza delle nostre divisioni. Ma qui, insieme, nelle forme che la razionalità politica saprà suggerire, dobbiamo ritrovare il bandolo di quella matassa che si è ingarbugliata: disarmando le parole che hanno acceso l’odio e spento la politica, riannodando i fili spezzati delle relazioni personali, non occultando le diversità (di cultura e di strategia) ma esercitando coerenza rispetto all’idea che le diversità non sono una minaccia ma una ricchezza. Appunto, imparando a conoscerci piuttosto che a prenderci reciprocamente le impronte digitali, imparando a confrontarci tra noi non col metro delle nostre biografie e delle nostre pregresse appartenenze, bensì col gusto di metterci in gioco, di far vivere le sensibilità come preziosi punti di connessione con interessi e protagonisti sociali, di scambiarci esperienze ed idee: altrimenti anche la nostra democrazia interna sarà una saga di anime morte, non allargamento e arricchimento, non capire di più e sentire di più e raccontare di più, ma semplicemente contarsi, separarsi, mummificarsi in un correntismo che ci chiude in noi stessi e nelle nostre fissità.

Non sto invocando il galateo né ponendo una pura questione metodologica: le forme della nostra convivenza dicono per intero la cifra della nostra cultura politica, ovvero della nostra capacità di attraversare il deserto della sconfitta, non per cercare un riparo, un’oasi ideologica o un bunker burocratico, ma per ritrovare un orizzonte di speranza per rimettere a punto una mappa e ridarci un orientamento, perché la nostra offerta di politica possa incrociare una diffusa domanda di senso.

Non abbiamo perso solo noi, non abbiamo perso solo le elezioni. Abbiamo perso molto di più: un intero abbecedario civile, un universo di simboli e valori, persino una certa cognizione generale di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Abbiamo perso la sfida del Novecento: quella contesa di classe e di civiltà che ha trasmutato il lavoro da merce povera e sporca, da compravendita di braccia, da dimensione biologica e privata, in epopea di ribellione e dignità, in dimensione sociale e narrazione corale, in emersione di un popolo che perdeva le fattezze opache della plebe e assumeva il volto nitido del moderno proletariato delle campagne e delle città. Il lavoro, fondamento costituzionale della democrazia repubblicana, pietra angolare di un duraturo e contrastato processo di incivilimento, oggi sembra regredito a quel fangoso punto di partenza: mercificato, alienato, parcellizzato, spogliato di legami sociali, , sempre più povero di tutele, nemmeno più raccontato o rappresentato se non nelle sequenze mortuarie delle cronache degli incidenti.

La solitudine operaia è il prodotto finale di questa scientifica frantumazione dei corpi sociali che crepano di liberismo, di precarietà, di concertazioni che concertano la resa, di corporativismo che hanno progressivamente spoliticizzato le questioni del salario, dell’orario, persino della disoccupazione. E’ la solitudine di chi trova più consolazione nella cocaina che non nel sindacato. I contratti atipici sono la tipicità del lavoro intermediato da un caporalato arcaico e ipermoderno, di borgata e planetario. La precarietà è il racconto generale del lavoro senza classe. E rimbalza dal recinto produttivo fin dentro ogni interstizio della vita, di quella nuda vita che galleggia nella società liquida, di quella vita subordinata e serializzata, magari di quella vita migrante che precipita fuori di metafora e nella società liquida letteralmente affoga.

Solo il mercato è solido, è l’unica terra, l’unico orizzonte, l’unica neo-socialità che residua nel tempo dell’individualismo proprietario: individui proprietari forse di null’altro che di pulsioni al consumo. Se non posseggono niente sarà colpa delle mani agili di un fanciullo rom o sinti o extra comunitario o extra terrestre: tagliare quelle mani, ammanettarle, manipolarle, manometterle, sarà la fantasia punitiva e l’ideologia vendicativa da offrire alla platea vastissima dei proprietari senza proprietà e dei ceti mediocri.

Il capro espiatorio è una dura incombenza sociale, lo individui e lo bracchi e lo sacrifichi a qualche dio non per sadismo spirituale ma per necessità economica: indicare un nemico rinsalda il senso di appartenenza alla propria comunità, consente di trovare un colpevole delle inquietudini collettive, nelle stagioni di crisi e recessione sposta il tiro del disagio proletario su bersagli sottoproletari. La guerra tra poveri torna come idea di governo della transizione: ma è ovviamente un governo di guerra, una epifania di ombre premoderne che ottenebrano il diritto e limitano i diritti mentre le garanzie di libertà perdono il proprio respiro universalistico e diventano volgari guarentigie per l’establishment.I ricchi e potenti invocano l’habeas corpus e non tollerano che le loro voci siamo intercettate, mentre per i poveri e per gli irregolari vale la dura lex che alla pena del vivere aggiunge pene supplementari, pene grondanti pedagogie autoritarie, pene senza delitto, castighi senza colpa: per punire i poveri e perpetuare la povertà per punire i disobbedienti ed eternizzare l’obbedienza.

Se la precarizzazione della società alimenta un crescente dolore sociale, la risposta del potere sarà una produzione seriale di paure. La destra è una gigantesca fabbrica di paure. E dunque più precarietà comporterà più repressione, il mercatismo sarà accompagnato dal sorvegliare e punire di quella deriva securitaria che è già scritta dentro la nostra attualità politica.

E la Chiesa ratzingeriana spaventata dai ritmi violenti della secolarizzazione, si ergerà a sua volta come magistero della paura: paura dei desideri, paura della soggettività femminile, paura della libertà. E la sua gerarchia si sentirà protetta dagli imprenditori politici del ciclo della paura che la ricambieranno appaltandole il privato sociale, anzi la privatizzazione confessionale del sociale. Quanto lontane suonano le parole della “Gaudium et spes” e che cesura radicale dalla temperie di quel cattolicesimo conciliare che si apriva alla storia e progettava una Chiesa compagna del mondo.

Nel mappamondo della precarietà scompaiono modi secolari di produzione di socialità: la città si spezza in cumuli di periferie, anzi si generalizza la forma di periferia che storicamente rappresenta la sintesi mirabile dell’alleanza tra rendita fondiaria e speculazione edilizia; si vive in non-luoghi; si struttura una condizione di nomadismo coatto, il mito delle radici è la sublimazione retorica di uno sradicamento senza precedenti. Le comunità si aggrappano ai territori, mere astrazioni geografiche assumono la dimensione di piccole patrie, un microcosmo di terra e sangue offre surrogati di identità e persino alfabeti politici. In questi spazi volatili, in questi tempi senza memoria e senza futuro, le generazioni faticano a raccontarsi e a scambiarsi storie e sentimenti: i vecchi vengono delocalizzati come esuberi dell’economia domestica, i bimbi con i crediti e i debiti scolastici vengono ammaestrati al mercato e alla competitività, l’educazione permanente della gioventù è affidata alle veline e ai velinari.

Su questo piano inclinato è scivolata la sinistra. I nostri riferimenti sociali non ci hanno più capito: loro perdevano reddito e certo non guadagnavano in servizi, e poi perdevano in previdenza e poi perdevano in Welfare, alla fine hanno perso anche la pazienza e si sono congedati da noi, dal liberismo temperato del centro-sinistra ma anche dalle intemperanze improduttive della sinistra radicale.

Tra il governo Prodi e il Paese reale vi è stato un terribile cortocircuito di intelligenza sociale e di efficacia politica. E al vuoto che si andava formando a sinistra noi abbiamo opposto - bisogna dirlo anche se è facile dirlo con il senno di poi - non una grande costruzione corale, una disseminazione di cantieri, una rete di pratiche sociali e la incubazione nell’immaginario collettivo di un’idea, di un programma, di un sogno: no, abbiamo opposto la precaria convivenza di apparati e infine un cartello elettorale. Quella sinistra arcobaleno affogata nel diluvio di aprile. Mentre il Pd consumava tutte le sue eredità nella velleità di un’autosufficienza che in realtà indicava il compimento dell’esodo dalla storia del movimento operaio e il congedo (da destra) delle culture politiche novecentesche. E quindi non solo la destra ha vinto, ma noi abbiamo perso.

La destra ha prima convinto e poi vinto, e non solo nelle urne, ma nei sogni e negli incubi dell’opinione pubblica: ha vinto contro le tasse e contro la casta e contro gli zingari e contro i trans, ha vinto contro i fantasmi del pianerottolo e contro la monnezza del sottoscala. Ha vinto la lingua della destra, un impasto di plebeismo piccolo-borghese e di perbenismo clericale che sintonizzano le veline di Mediaset con l’industria del sacro, l’Isola dei famosi con l’ampolla del Dio Po, le telefonate oniriche di Berlusconi con le piroette no-global di Tremonti. Questa destra gioca con disinvoltura estrema la partita dell’egemonia, costruisce parole e scenografie suggestive, “parla come mangia” e entra dritta nello stomaco popolare: ma le sue scelte di politica economica hanno il segno della ferocia classista, i salari e le pensioni languiranno a lungo nella foresta di Sherwood ma di Robin Hood non vi sarà traccia, i tagli alla spesa pubblica saranno una secca decurtazione di diritti e di servizi socio-sanitari. Benetton forse salverà Alitalia, ma il salvataggio al netto di migliaia di esuberi, lo pagherà con i rincari delle tariffe autostradali e il federalismo viene annunciato mentre il Sud viene saccheggiato di risorse finanziarie e persino delle prerogative di spesa dei fondi comunitari.

Questo è lo scandalo contro cui scendere in piazza e ricostruire un blocco sociale di opposizione: non c’è bisogno di volgarità per opporsi, c’è bisogno di politica. Di una politica centrata su una incandescente questione di disuguaglianza e di ingiustizia sociale. Le leggi ad personam sono oscene, ma non sono più oscene delle norme razziali. O della voglia di mutare le regole di ingaggio per i soldati italiani impegnati in Afghanistan. O del ritorno al business nucleare. O della cancellazione delle sanzioni alle imprese che violano le norme sulla sicurezza dei lavoratori. Bisogna costruire una vasta e ricca mobilitazione permanente, una opposizione plurale, civile e sociale, alle destre.

È il primo compito di Rifondazione, anche nella contesa senza sconti e senza anatemi con il partito veltroniano, discutendo e costruendo luoghi comuni con le altre forze della sinistra di alternativa, predisponendosi alla battaglia elettorale per le amministrative del prossimo anno. E preparandosi a far vivere le pure imminenti elezioni europee non come un banale terreno di rivincita, ma come la prosecuzione della lotta della “sinistra europea” che deve raccogliere e capitalizzare il disagio continentale verso il modello di unificazione dettato dall’Europa delle tecnocrazie e delle banche.

Bisogna tornare nella società, non fuggendo dalla politica, anzi criticando in radice qualunque sciagurata ipotesi di autonomia del sociale e di autonomia del politico. Il politicismo è una prigione. Ma l’esodo dalla politica è la rinuncia al cambiamento. Se non concordiamo su questo, a che vale citare i classici o celebrare Gramsci?

Un partito politico lo si può sciogliere in tanti modi. Per decisione soggettiva dei suoi gruppi dirigenti. Ma anche perché lo si lascia deperire, non lo si alimenta, non lo si ossigena. Io non voglio sciogliere il mio partito. Voglio che viva ma per vivere dev’essere sempre fedele al suo nome e dunque infedele ai richiami della nostalgia e dell’identitarismo: fedele al compito di rifondare. Se stesso, un’idea del mondo, una pratica della trasformazione. E di rifondare una grande sinistra di popolo.

Vorrei un partito aperto, curioso, promotore di partecipazione, capace di ascolto, libero da quella boria che ci rende spesso accademici della chiacchiera. Vorrei in questo partito tenere vivo e costante il confronto sui pensieri lunghi, sugli orizzonti strategici, sapendo che il comunismo è un cammino impervio, che dovremmo imparare a seminare senza la fretta di guadagnare il raccolto, che dovremmo porre correttamente e con radicalità le domande a cui cerchiamo risposta: domande di senso, di qualità del vivere e anche del morire, di qualità del produrre e del consumare, domande sui nostri corpi sessuati e sulla grammatica degli amori, domande sui dilemmi della biopolitica e sulle ferite della biosfera, domande sulla violenza sublimata in potere e dal potere esercitata in regime di monopolio, disseminata attraverso i suoi apparati, perfino sacralizzata.

In ciò che vi ho detto vi è la proposta di una ricomposizione della nostra comunità politica. Vi è una ipotesi di governo del partito sulla base di una piattaforma programmatica. Per me, in questa fatica congressuale, non vi è null’altro che non sia tutto intero il senso della mia militanza e della mia vita.
Nichi Vendola, Chianciano 25.07.08


ps
ma vi ricordate com'era bella la sua campagna elettorale alle regionali del 2005?

8 commenti:

Renata ha detto...

Ciao guapissima senora. Ho bisogno di parlarti in privato ma non trovo il tuo indirizzo di posta elettronica. Puoi mandarmi un ciao per facilitarmi la risposta ? Un besito. Renata un po' imbranata remucci@alice.it

Damiano Aliprandi ha detto...

Insomma mi pare di capire che vuoi Vendola alla direzione del partito, non so ma io preferisco Ferrero. Ma al di là di tutto io spero veramente che ritorni la sinistra al parlamento, siamo caduti troppo in basso! E la mancanza si fa sentire... ;)

SCHIAVI O LIBERI ha detto...

Allora...non voglio fare il solito comunistaccio a cui non va mai bene niente. Però, la linea politica di Giordano, Bertinotti e Vendola abbiamo visto dove ci ha portato. Quello che Vendola dice adesso, io e alcuni altri lo diciavamo ancora in Ottobre dell'anno scorso: bisogna ritornare in mezzo alla gente, non puoi manifestrare a Roma contro il Walfare e poi votarlo in Parlamento, andare a Vicenza e votare il rifinanziamento, il Pd, non è più un partito dei nostri ecc.. ecc... Però loro hanno risposto spostando il congresso ( ricordo che era da fare l'anno scorso questo)e andando avanti per la loro strada con scelte imposte dall'alto invece che dalla base( bella democrazia). Se abbiamo perso clamorosamente le elezioni, è si colpa dell'ignoranza della gente che non è più in grado di pensare, come direbbe Kant sono minorati , ma anche di un partito che si è via via allontanato dai bisogni della gente che rappresentava.Durante la campagna elettorale, giravo fino all'una di notte con una bici a distribuire volantini per sentirmi dire che alla fine una volta presa la poltrona eravamo tutti uguali.Questa è stata l'impressione che abbiamo dato. Poi non si capisce perchè votino Berlusconi ma è così. Allora, secondo la mia modestissima opinione: o iniziamo ad essere coerenti con quello che vogliamo rappresentare assumendoci la responsabilità di essere i promotori di un vero cambiamento, o altrimenti saremo condannati ad essere una riserva di voti per i democristiani ( vedi ultime elezioni). Programma di 280 pagine puntualmente non rispettato per colpa non nostra.Sono troppo estremista? Per colpa della mozione 1 e 2 qui nel mantovano ci sono stati addirittura dei problemi a scrivere la parola comunisti nella mozione congressuale.Iniziamo bene!!!!!
Ciao

stellastale ha detto...

@renata: provvedo subito

@l'incarcerato: perchè preferisci ferrero... che da come si stanno mettendo le cose vincerà

@schiavi: le cose che dicevi tu le dicevo anche io.... e anche per me non è stato facile fare campagna elettorale. detto ciò e analizzate le ragioni della sconfitta (e non mi pare affatto che la mozione 2 non lo abbia fatto abbastanza) il punto è il futuro, è come ricostruirlo. su questo, tra l'arroccamento identitario e ilnuovo mettersi in gioco come comunista, che sta la sfida tra le due mozioni. se continuiamo invece a intenderla come resa dei conti dovrei risponderti che non capisco la differenza tra i bertinottiani e chi preferisce ferrero, che se non ricordo male, in quel tanto vituperato governo Prodi, ha fatto il Ministro per il Prc. Se non è un Ministro a riuscire a dare la spinta a sinistra, stando all'interno del Governo, la colpa è del PResidente della Camera? dai... evitiamo questa strana caccia alle streghe!! e guardiamo al futuro, a come costruirlo dal basso, pezzo dopo pezzo

SCHIAVI O LIBERI ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
SCHIAVI O LIBERI ha detto...

Si... ma Bertinotti avrebbe potuto prendere anche lui un posto da ministro invece che accomodarsi su una poltrona dall'alto valore simbolico. Abbiamo avuto, anche per colpa di quella scelta, Mastella con 1, 5 % dei voti ministro della Giustizia, e noi con il 7 un ministro tra l'altro senza portafoglio se non ricordo male. Potevamo fare molto di più...
Non voglio fare la caccia alle streghe, ma solo prendere coscienza di cosa ci ha catapultato nel baratro. E quella scelta iniziale mi ha molto deluso.
Viviamo in una società che lentamente sta regredendo in tutti i campi, e noi non siamo ancora in grado di portare avanti quella frase che a me piaceva molto: " Un altro mondo è possibile".Un altro mondo è possibile solo se anche chi si dice di sinistra, riesce ad abbandonare gli ultimi brandelli di egoismo e incoerenza. Altrimenti resta solo il dolore e la frustrazione, di vivere in una società che non ci rappresenta.
Ciao
Un caro saluto

Carmine ha detto...

intervento di vendola personalmente mi è piaciuto molto, in questo momento è il politico che più mi rappresenta. La società è cambiata ma lo spazio per la sinistra non è diminuito si può fare ancora molto e bene

stellastale ha detto...

@carmine: anche io penso che lo spazio per la sinistra sia tutt'altro che diminuito, ma oggi tornare a costruire dopo l'esito del congresso di rifondazione è molto più difficile

@schiavi: quello slogan a cui siamo affezionati in tanti guardava al futuro e sul futuro si interrogava... a me sembra invece che siano prevalsi rigurgiti di un passato che davvero non c'è più